5 ' di lettura
Salva pagina in PDF

Il Rapporto Beveridge (pubblicato nel 1942, NdR) è stato uno dei testi più importanti del secolo scorso. Dietro al titolo un po’ anodino («Assicurazioni sociali e servizi correlati») si nascondeva infatti una grande visione: un nuovo modello di società in grado di proteggere i propri cittadini «dalla culla alla tomba». William Temple, arcivescovo di Canterbury e grande amico di William Beveridge, diede un nome a questo modello: welfare state, uno Stato impegnato a garantire il benessere della popolazione e non a promuovere la guerra, come il warfare state hitleriano.

Durante gli anni di guerra il Rapporto ebbe una vasta eco internazionale. Dopo la guerra, molti Paesi ebbero così un proprio piano Beveridge, ispirato ai principi dello studioso inglese: pensiamo al piano Laroque in Francia, a quello Van Rhijn in Olanda e a quello della Commissione D’Aragona in Italia.

Le innovazioni del Rapporto Beveridge

Il Rapporto Beveridge conteneva due significative rotture con la tradizione. Innanzitutto il principio dell’universalismo: la protezione sociale andava garantita a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro posizione occupazionale e sociale. Le prestazioni dovevano essere flat rate (a somma fissa, uguale per tutti), senza alcuna restrizione all’accesso (soprattutto per quanto riguardava i servizi) e finanziate il più possibile tramite il gettito fiscale. La logica universalistica rompeva in modo netto rispetto alla logica categoriale e assicurativo-attuariale del modello bismarckiano. Beveridge elaborò una nuova filosofia sociale: nel mercato le persone sono remunerate in base al proprio merito e contributo, ma di fronte a rischi e bisogni che non dipendono da scelte individuali ciascuno deve essere egualmente protetto in quanto cittadino.

Arriviamo così al secondo elemento di rottura. Per Beveridge il welfare è un diritto di cittadinanza, componente essenziale della terza categoria di diritti dopo quelli civili e politici: i diritti sociali, appunto. L’accesso alle prestazioni è una spettanza soggettiva, «giustiziabile» di fronte a un tribunale nel caso non sia concretamente riconosciuta. Qui la cesura è netta nei confronti dell’assistenza intesa come «carità» pubblica: l’impostazione inglese (e più in generale nord-europea) delle poor laws, provvedimenti statali che riservavano i sussidi unicamente ai poveri, spesso privandoli di alcuni diritti civili.

Eredità e conseguenze del Rapporto Beveridge

Il Rapporto Beveridge proponeva di riformare il welfare britannico in quattro direzioni. Occorreva istituire innanzitutto un Servizio sanitario nazionale aperto a tutti per le cure mediche. Poi ci volevano due schemi nazionali (e universali) per garantire le prestazioni previdenziali (pensioni, sussidi di disoccupazione e malattia) e gli assegni familiari.

Infine serviva uno schema nazionale di assistenza pubblica, volto a fornire prestazioni aggiuntive ai cittadini più bisognosi, in base a una prova dei mezzi. Questa architettura avrebbe garantito a tutti una rete di sicurezza di base, sopra a cui eventualmente costruire schemi integrativi a finanziamento contributivo. Chi non avesse potuto permettersi il «secondo pilastro» integrativo sarebbe stato invece protetto da una seconda rete di sussidi, più mirata, e sempre garantita dallo Stato. Le quattro proposte vennero fatte proprie, dopo la guerra, dal governo laburista di Clement Attlee e realizzate fra il 1946 e il 1948.

Molti Paesi seguirono nei decenni successivi le orme della Gran Bretagna. Gli allievi più diligenti furono le democrazie scandinave, che realizzarono appieno le ambizioni beveridgeane e andarono oltre, soprattutto sul terreno della piena occupazione, dell’istruzione, dei servizi sociali e, non ultimo, delle pari opportunità. Francia e Germania si limitarono a introdurre l’universalismo nel settore degli assegni familiari (o meglio, per i figli), mentre l’Italia, poi seguita dagli altri Paesi sud-europei, lo introdusse nel campo della sanità: il nostro Servizio sanitario nazionale fu istituito nel 1978.

Il Rapporto alla prova del tempo: nuovi rischi e maggiori disuguaglianze

Per quanto ambiziosa e lungimirante, nessuna visione politico-sociale può anticipare il futuro. Col passare del tempo, il piano Beveridge ha così inevitabilmente perso slancio propulsivo. In parte, sono emersi alcuni effetti perversi del suo disegno istituzionale originario, centralista e statalista. Le due sfide più importanti sono però derivate dal cambiamento della struttura dei rischi e bisogni, da un lato, e dall’integrazione europea, dall’altro lato.

Beveridge si era proposto di mitigare i «cinque giganti» della povertà, della malattia, dell’ignoranza, dello squallore abitativo e della inattività lavorativa. Entro gli anni Settanta del secolo scorso, tutti i Paesi dell’Europa occidentale avevano istituito schemi pubblici rivolti alle cinque sfide. A partire dal decennio successivo si sono però manifestati mutamenti socio-economici sempre più rapidi e incisivi come l’invecchiamento demografico, i nuovi rapporti fra i generi e l’incremento dell’occupazione femminile, la transizione verso l’economia dei servizi, la flessibilizzazione del mercato del lavoro e così via.

Mentre le sfide e i bisogni presi come riferimento da Beveridge diventavano meno pressanti, anche grazie a riforme sociali espansive, le trasformazioni in corso producevano due effetti imprevisti. Da un lato, l’emergenza di nuovi rischi: la non autosufficienza, l’impossibilità di conciliare vita professionale e vita lavorativa, l’obsolescenza o l’insufficienza delle competenze, la marginalizzazione dal mercato del lavoro e l’esclusione sociale. Dall’altro lato, questi rischi tendevano (e tuttora tendono) a concentrarsi entro alcuni gruppi e territori (giovani, donne, anziani fragili, lavoratori con basse qualifiche, aree territoriali svantaggiate). Di qui una doppia sfida di aggiustamento: una ricalibratura funzionale (dai vecchi ai nuovi rischi) e distributiva (dai garantiti ai non garantiti), nel rispetto delle compatibilità macro-economiche e fiscali.

L’aggiustamento è iniziato dapprima in Scandinavia, per poi estendersi negli altri Paesi. In corso d’opera è tuttavia emerso un secondo limite dell’approccio beveridgeano: il suo essere prevalentemente volto alla «riparazione» dei danni, all’erogazione di prestazioni «passive» a fini compensatori. Per quanto migliorativa rispetto allo status quo, la rete di base è inefficace come trampolino di mobilità sociale, in quanto tarata sui sussidi più che sul rafforzamento delle capacità dei beneficiari. A partire dal nuovo secolo, si è così affermata la nuova impostazione dell’«investimento sociale». Il suo tratto caratterizzante è l’obiettivo di «preparare» invece di «riparare» — senza però rinunciare alla protezione di base — spostando enfasi e priorità dal rimborso dei danni alla prevenzione dei rischi.

Un nuovo Piano per preparare anziché riparare, con l’aiuto delle istituzioni europee

Questo approccio ha dato origine a molti nuovi schemi e iniziative nel campo dell’istruzione (a partire dagli asili), della formazione, dell’inserimento lavorativo, dell’inclusione sociale, dei servizi di conciliazione e del sostegno ai figli, della tutela della salute e dell’assistenza agli anziani. Siccome i nuovi bisogni tendono a variare fra individui e territori, anche l’universalismo si è fatto più differenziato e selettivo. Molte delle priorità del piano Next Generation Eu riflettono da vicino la filosofia dell’investimento sociale.

L’integrazione europea ha anch’essa avuto vaste implicazioni per il welfare state. Le proposte di Beveridge davano per scontata la presenza, la stabilità e l’autonomia dello Stato-nazione. Quest’ultimo è però diventato nel frattempo anche uno Stato-membro della Unione europea. La libera circolazione e il principio di non discriminazione hanno creato una nuova e più ampia comunità di persone (tutti i cittadini dell’Unione) che possono spostarsi da un Paese all’altro senza rischio di perdere le proprie spettanze. Il mercato del lavoro europeo è sempre più integrato, la Ue ha sviluppato una propria riconoscibile politica sociale: pensiamo alla recente direttiva sul salario minimo. Su questo versante l’obiettivo deve essere la creazione di una rete protettiva essenziale, ma «abilitante», comune per tutti i Paesi. Il primo mattone è già stato posato con l’adozione del Pilastro europeo dei diritti sociali. Per ora si tratta di 20 principi generali, che andranno gradualmente trasformati in disposizioni legislative.

Ma c’è di più. La globalizzazione ha amplificato i rischi, soprattutto di natura ambientale e sanitaria. Il mutamento climatico e le pandemie stanno producendo due nuovi e minacciosi «giganti» di fronte ai quali gli Stati non possono proteggersi da soli. È necessario introdurre nuove forme di condivisione sociale fra Paesi, finanziate da risorse comuni. Durante la pandemia sono stati creati lo schema Sure (trasferimenti per la difesa dell’occupazione) e il Next Generation Eu. Una parziale socializzazione dei rischi ambientali sarà assicurata dal Social Climate Fund e dal Just Transition Fund, per ammortizzare la riconversione energetica e produttiva. Ci sono già molti tasselli per creare una vera e propria Unione sociale europea, ma manca un disegno complessivo.

Il Regno Unito ha scelto di uscire dall’Ue. Ma l’eredità dell’universalismo, dei diritti e della coesione sociale è diventata un patrimonio comune. La Commissione europea ha recentemente affidato a un gruppo di esperti il compito di delineare il profilo di un possibile welfare europeo. Sarebbe bello se ne uscisse un nuovo piano Beveridge per il Ventunesimo secolo, rivolto a tutta l’Europa.

 


Questo articolo è stato pubblicato nell’inserto “La Lettura” del Corriere della Sera del 30 ottobre 2022 col titolo “Il passato e il futuro del welfare. L’obiettivo è prevenire anziché riparare” ed è qui riprodotto previo consenso dell’autore.